Al via limiti e criteri di redazione degli atti nei nuovi procedimenti sotto i 500mila euro

Articolo di: Avv. Maurizio Hazan – Avv. Andrea Codrino
Pubblicazione: Il Sole 24 Ore
Data: 4 Settembre 2023

Le prescrizioni si applicano ai giudizi introdotti dopo il 1° settembre 2023 L’obiettivo è rendere operativo il principio di chiarezza e sinteticità.

Debuttano i nuovi limiti e criteri per redigere gli atti processuali relativi ai procedimenti civili. Le indicazioni del decreto del ministero della Giustizia 110 del 7 agosto 2023, pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 11 agosto, si applicano infatti ai procedimenti avviati dopo il 1° settembre: di fatto, quindi, in questi giorni.

Il contesto
Il regolamento rende operativa la delega introdotta dalla riforma Cartabia della giustizia civile (decreto legislativo 149/2022) nell’articolo 46 delle disposizioni per l’attuazione del Codice di procedura civile. L’obiettivo è favorire il rispetto del principio di chiarezza e sinteticità degli atti processuali, funzionale alla realizzazione del giusto processo, sotto il profilo della sua ragionevole durata (articolo 111 Costituzione). Il principio è stato codificato dalla stessa riforma modificando l’articolo 121 del Codice di procedura civile, che ora dispone che «tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico».

Prima della pubblicazione, una versione precedente del decreto era stata diffusa lo scorso giugno, ricevendo indicazioni critiche che hanno condotto a una non trascurabile revisione dello schema di partenza.

Di fatto, sono stati raddoppiati tutti i limiti massimi di lunghezza degli atti ed è stato esteso lo spazio disponibile per le allegazioni difensive in termini tanto ampi da non condurre, in linea di massima, a particolari differenze rispetto alla prassi. Tanto più – e anche questa è una novità – che tali limiti non valgono per tutti gli atti ma soltanto per le cause il cui valore è inferiore a 500mila euro.

In questa sua nuova veste (che pure non è andata esente da critiche all’interno dell’avvocatura), il decreto ministeriale concentra i suoi principali elementi di novità sull’impostazione, più che sulla lunghezza, degli atti processuali, la cui struttura – anche per ossequiare le finalità di miglior composizione degli schemi informatici imposti dal processo telematico – disegna un percorso vincolato improntato a regole di buon ordine e massima razionalità espositiva. L’obiettivo è consentire al giudice una rapida ed esaustiva rappresentazione dell’oggetto del contendere.

Le regole da rispettare
Il decreto ha fissato i limiti dimensionali in 80mila caratteri (circa 40 pagine) per gli atti introduttivi, la comparsa di risposta o le memorie difensive e le comparse conclusionali e di 50mila caratteri (circa 36 pagine) per le memorie di replica e gli altri atti del giudizio, e infine 10mila caratteri (5 pagine) per le note scritte in sostituzione dell’udienza.
Non è poco, se si considera poi che nel computo delle battute non vanno in ogni caso considerati gli spazi e alcune parti strutturali indefettibili (come l’intestazione, l’ indicazione delle parti, l’ eventuale indice, gli eventuali riferimenti giurisprudenziali riportati nelle note, le parole chiave).
È in ogni caso prevista la possibilità di derogare ai limiti dimensionali quando (il difensore ritenga che) la complessità della controversie lo richieda. In tal caso però l’indice, altrimenti soltanto eventuale, diviene necessario.

Viene fissata anche la dimensione “metrica” del carattere in 12 punti, interlinea 1,5, margini orizzontali e verticali di 2,5 cm.

Le note in calce non sono ammesse, se non in relazione agli stretti riferimenti giurisprudenziali e dottrinali, che potranno essere (sinteticamente) riportati nel loro contenuto (mentre nella versione precedente era inibita la trascrizione dei testi) .

La struttura dell’atto dovrà poi essere articolata in separate rubriche (fatto e diritto), con precisa qualificazione sulla natura delle eccezioni sollevate, preliminari o pregiudiziali ovvero di diritto sostanziale, e con espresso richiamo alle norme di cui è invocata l’applicazione (o è denunciata la violazione nel caso di impugnazioni).

Decisamente innovativa, poi, la necessità di inserire nell’atto un massimo di 20 parole chiave (limite aumentato rispetto allo schema del decreto di giugno) che, con una sorta di abstract essenziale, individuino l’oggetto e i temi centrali del giudizio.

Gli stessi criteri prescritti per gli atti di parte dovranno essere rispettati dai giudici nel redigere i loro provvedimenti, che dovranno essere parimenti “chiari e sintetici”. Le decisioni soggette a impugnazione andranno redatte con l’indicazione di capi separati e numerati, per agevolare il rispetto, da parte degli impugnanti, dei requisito di sintesi, chiarezza e specificità del gravame (articolo 342 Codice di procedura civile).

Accogliendo le perplessità sollevate durante la consultazione, il nuovo impianto regolamentare si applica solo ai procedimenti introdotti dopo il 1° settembre e non invece (come inizialmente previsto) agli atti relativi a giudizi già pendenti in quella data.

L’inosservanza delle nuove disposizioni non comporta (come del resto previsto dall’articolo 46 delle disposizioni per l’attuazione del Codice di procedura civile) l’irricevibilità dell’atto o la sua nullità, nemmeno parziale. Il giudice potrà però tener conto di tali violazioni nel regolare in termini sanzionatori le spese di lite, anche a prescindere dalla soccombenza o meno della parte che le ha commesse.

L’analisi di Maurizio Hazan: impatto circoscritto ma addio testi prolissi

A conti fatti, questa nuova versione del decreto ministeriale sui limiti degli atti giudiziari, “alleggerita” dopo le reazioni alla prima versione del testo di giugno, non sembra preludere di per sè a modifiche operative di serio impatto. Tende piuttosto a presidiare finalità programmatiche, richiamando – in sincrono con la più recente giurisprudenza di legittimità (Cassazione 17698/2014, 24585/2019, 8425/2020 e 7600/2023) – le categorie alla necessità di abbandonare gli artifizi linguistici di una prosa prolissa, usata come frequente paravento di contenuti deboli.

In questo senso, il decreto prevede iniziative formative sui criteri e le modalità di redazione degli atti giudiziari, anche con il coinvolgimento di linguisti, e l’istituzione di un osservatorio presso l’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia, di cui dovranno far parte anche esperti nella linguistica giudiziaria e avvocati designati dal Cnf.

Certo è che la regola della chiarezza, che non coincide sempre con la brevità, integra un principio ormai irrinunciabile, in quanto trasversalmente imposto come canone di buona fede nella gestione di tutte le moderne relazioni giuridiche, siano esse processuali o sostanziali.