Il difensore paga per l’errore solo se fa perdere il giudizio

Articolo di Avv. Maurizio Hazan
Pubblicazione: Il Sole 24 Ore
Data: 14 Ottobre 2024

Affinché un avvocato sia tenuto a risarcire il proprio cliente per non aver diligentemente adempiuto la propria prestazione professionale, in relazione al patrocinio in giudizio, non basta dimostrare l’inadempimento (e la violazione delle regole di corretta esecuzione del proprio incarico) ma occorre provare l’effettività del danno patito dal cliente (e il relativo nesso di causa). Questo danno, tuttavia, non si concreta tout court nel pregiudizio subito per non aver potuto partecipare al giudizio (ad esempio in caso di intempestiva proposizione di un appello, poi dichiarato inammissibile) o per non essere stato adeguatamente difeso (ad esempio nel caso in cui non venga sollevata un’eccezione di prescrizione): occorre che l’errore dell’avvocato abbia compromesso l’esito di un giudizio che, senza quell’errore, sarebbe stato vittorioso per il cliente.

È questo il principio che la Cassazione ha cristallizzato in una serie di recenti pronunce, l’ultima delle quali (ordinanza 25023 del 17 settembre 2024) traccia le coordinate della responsabilità dell’avvocato, chiarendo inoltre che la mera perdita di chance di partecipare utilmente a un giudizio non costituisce di per sé danno risarcibile.

Occorre invece dimostrare, in via presuntiva e prognostica, la ragionevole probabilità che l’azione giudiziale, se tempestivamente proposta e diligentemente seguita, avrebbe avuto un esito favorevole, in base alla regola del “più probabile che non”.

Regola che governa l’accertamento del nesso di causa nei giudizi risarcitori, consentendo di ritenerlo dimostrato laddove – pur in assenza di certezze assolute – una determinata conseguenza dannosa si possa ritenere correlata a un determinato antecedente causale in modo probabilisticamente prevalente.

Nel sostenere questo ragionamento la Cassazione (si vedano anche le ordinanze 21045 e 24670 del 2024,) ricorda anzitutto che l’obbligazione dell’avvocato è di regola (tanto più in sede giudiziale) un’obbligazione “di mezzi” e non “di risultato” in quanto «il professionista si fa carico non già dell’obbligo di realizzare il risultato cui il cliente aspira» (cioè l’interesse presupposto), «bensì dell’obbligo di esercitare diligentemente la propria professione» (l’interesse strumentale), che «a quel risultato deve pur sempre essere finalizzata».

Mentre nelle obbligazioni di risultato il danno evento si può considerare provato già dall’inadempimento, nelle obbligazioni professionali il danno risarcibile non è integrato dalla sola violazione delle regole professionali ma dalla compromissione dell’interesse “presupposto” del cliente che tale violazione ha in concreto causato. Sicché, la mancata proposizione di un appello, pur costituendo inadempimento, darà luogo al risarcimento solo se l’impugnativa, se adeguatamente coltivata, avrebbe ragionevolmente condotto alla vittoria della causa.

Va dunque disattesa la pretesa risarcitoria avanzata dal cliente che non abbia dimostrato che una data causa non tempestivamente promossa o correttamente seguita dal professionista avrebbe verosimilmente avuto esito vittorioso se l’avvocato si fosse attivato con la dovuta diligenza; e poco importa se la partecipazione al giudizio avrebbe potuto fargli conseguire possibili vantaggi, trai quali la possibilità di raggiungere soluzioni transattive o eventualmente giovarsi di una non adeguata difesa di controparte o, ancora, dell’eventuale mutamento di orientamento della giurisprudenza sull’oggetto del contendere. Tali chance non costituiscono un interesse giuridicamente tutelabile.

Rimane fermo il diritto del cliente di agire per la risoluzione del contratto professionale, con richiesta di restituzione del compenso versato all’avvocato inadempiente.

Nel sostenere la propria posizione, la Cassazione sottolinea che la corretta amministrazione della giustizia non può essere inquinata, o ingolfata, da azioni processuali infondate o abusive. Ciò porta a riconoscere tutela risarcitoria solo a pretese giudiziali che avrebbero potuto essere accolte con successo, se adeguatamente coltivate. Ma è una visione molto rigorosa, che sembra non tenere conto dell’opacità di alcune questioni giuridiche.