Danni sanitari, il paziente non deve provare l’errore

Articolo di: Avv. Maurizio Hazan, Avv. Andrea Codrino
Pubblicazione: Il Sole 24 Ore
Data: 8 Aprile 2024

Il paziente che agisce in giudizio per il risarcimento del danno da responsabilità sanitaria ha l’onere di dimostrare (anche presuntivamente) il nesso di causa tra la condotta denunciata e l’evento dannoso. Non deve invece dimostrare la violazione delle leges artis nell’esecuzione della prestazione sanitaria. Resta infatti in capo alla struttura o al professionista il compito di contestare la fondatezza della domanda, dimostrando che la prestazione è stata eseguita in modo corretto oppure che l’inadempimento è dipeso da una causa non imputabile. Lo ha ricordato la Cassazione che, con l’ordinanza 5922 del 5 marzo 2024, ha chiarito i principi che guidano l’onere della prova in tema di responsabilità sanitaria, censurando la decisione di merito che non ne aveva fatto buona applicazione.

La vicenda riguardava una scorretta manovra di anestesia, che aveva causato un danno al paziente diagnosticato circa due mesi dopo l’intervento chirurgico. Nella propria descrizione dei fatti, il paziente dichiarava che all’anestesista fu da subito chiaro il proprio errore, tanto da averlo confessato all’infermiera che lo assisteva. In corso di giudizio nessuna, pur agevole, prova testimoniale di tale confessione, e dunque dell’inadempimento, era stata fornita, ragion per cui la Corte d’appello aveva negato la responsabilità (contrattuale) della struttura convenuta in giudizio, affermando che il paziente danneggiato non aveva provato per testi alcuni fatti rilevanti per dimostrare l’esistenza del nesso di causa che è elemento costitutivo dell’inadempimento e quindi dell’illecito.

La Cassazione rimette le cose a posto, osservando che anche se avesse provato per testimoni la confessione dell’anestesista, il paziente non avrebbe in alcun modo assolto l’onere incombente a suo carico di dimostrare il nesso di causa. Di converso, però, il fatto che il danneggiato non abbia dimostrato l’inadempimento è irrilevante, perché non spetta a lui l’onere di provarlo. È la struttura, infatti, a dover dimostrare la correttezza della prestazione (nel caso esaminato la prova non solo non è stata fornita, ma neppure sostenuta da una corretta compilazione della cartella clinica). La questione avrebbe dunque dovuto essere risolta e decisa attraverso una miglior valutazione dei fatti che consentono effettivamente di dar per dimostrato, o meno, il nesso di causa, la cui prova incombe sul paziente. E nella valutazione dell’esistenza del nesso – inteso come la relazione tra due eventi tale da poter qualificare l’uno come conseguenza dell’altro – si deve quindi applicare il criterio della preponderanza dell’evidenza o del più probabile che non nel caso in cui vi sia una sola condotta astrattamente idonea a determinare l’evento, affermando la responsabilità, se le probabilità che il danno sia conseguenza di quella condotta sia prevalente rispetto alla possibilità che non lo sia. Nel caso in cui, poi, l’evento risulti astrattamente riconducibile a una pluralità di cause, va dato maggior rilievo a elementi che possano delineare una probabilità prevalente.

È questa la regola di giudizio che la Corte d’appello avrebbe dovuto adottare per ricostruire la relazione causale, formulando una valutazione probabilistica che (in mancanza della prova dell’esatto adempimento da parte della struttura) prescindesse dalla mancata dimostrazione dell’inadempimento allegato dall’attore e si concentrasse sugli elementi di prova documentali acquisiti in giudizio (vicinanza cronologica tra l’intervento anestesiologico e le sopravvenute problematiche riscontrate nelle successive visite mediche). Il tutto fondandosi soprattutto, sulle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, la quale assume un ruolo centrale nella valutazione del giudizio di prevalenza probabilistica che accerta il nesso di causa (e che nel caso esaminato aveva individuato la modalità di somministrazione dell’anestesia come possibile fattore favorente la patologia dannosa contestata in giudizio).

Quindi, la mancata dimostrazione, da parte dell’attore, di elementi fattuali facilmente provabili e allegati a sostegno del denunciato inadempimento non incide sulle sorti del giudizio. Sorti che potrebbero invece sensibilmente dipendere dalla capacità, o meno, degli operatori sanitari di strutturare processi interni utili a ricostruire e documentare il corretto adempimento della prestazione, nei limiti delle regole di comportamento in concreto esigibili.