Danni da infezioni in ospedale, responsabilità e prova a due vie
Articolo di Avv. Maurizio Hazan
Pubblicazione: Il Sole 24 Ore
Data: 22 Gennaio 2024
Regimi diversi nel caso di pregiudizio diretto al paziente o ai suoi parenti
Non è comunque possibile pretendere dalla struttura la sterilità ambientale totale
Responsabilità e prova a due vie per la struttura sanitaria in caso di danni da infezioni contratte durante l’assistenza e il ricovero, a seconda che il danno riguardi direttamente il paziente (e i suoi eredi in casi di decesso) o i prossimi congiunti, in caso di danno parentale. Nel primo caso vale, a protezione del paziente, la regola della responsabilità contrattuale della struttura, la quale invece risponde in via extracontrattuale quando i parenti agiscono iure proprio. Il che porta a un diverso riparto degli oneri probatori che può condurre a esiti differenti. È quanto ha ricordato il Tribunale di Roma con la sentenza 18155 dell’11 dicembre scorso (giudice Cisterna), che ha richiamato e riordinato i principi affermati dalla Cassazione (da ultimo, ordinanza 16900 del 13 giugno 2023) a proposito del diverso regime di responsabilità applicabile alla struttura in caso di infezioni.
Si tratta di un tema di grande impatto, visto che in Italia si verificano 530mila casi all’anno, secondo lo studio del Centro europeo per le malattie infettive.
La vicenda trattata dal Tribunale di Roma riguarda una paziente che sviluppò, durante il suo ricovero, una serie di gravi infezioni che, nonostante le terapie adeguatamente somministrate, finirono per condurla a morte. Affermando la responsabilità dell’ospedale, gli eredi agirono per ottenere il risarcimento iure hereditario dei danni relativi alle sofferenze patite dalla vittima durante il decorso clinico; in contemporanea veniva richiesto, questa volta iure proprio, il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale.
Il giudice precisa che, per quel che concerne i danni patiti direttamente dalla vittima (danno terminale e danno da lucida agonia), gli eredi devono anzitutto provare il nesso di causalità e dimostrare che la contrazione dell’infezione è avvenuta in ambiente ospedaliero (secondo i consueti parametri del criterio temporale, topografico e clinico). È invece onere della struttura dimostrare l’impossibilità di evitare – pur con l’adozione delle più diligenti precauzioni – il contagio o la sua provenienza allogena per una precedente colonizzazione del paziente.
Laddove, invece, ad agire siano iure proprio i parenti del paziente, l’intero onere probatorio (in base all’articolo 2043 del Codice civile) si trasferisce sugli attori, i quali devono allegare la prova della condotta colpevole, del nesso causale e della correlazione eventistica.
In nessun caso, secondo il Tribunale di Roma (in aderenza a quanto sostenuto dalla Cassazione con la sentenza 6386 del 3 marzo 2023) si può parlare di responsabilità oggettiva, non potendosi certo imporre una «obbligazione del risultato di assoluta sterilità ambientale». Ciò nonostante, quando si parla di responsabilità contrattuale, la prova liberatoria richiesta all’ospedale è piuttosto severa, non bastando la dimostrazione «di aver predisposto protocolli per la prevenzione di infezioni volti a evitare, per quanto possibile, tal sorta d’eventi» dovendosi anche provare di averli specificamente applicati al caso concreto, e dunque durante il trattamento della paziente prima e durante la genesi e lo sviluppo dell’infezione.
Ciò che è quindi esigibile, si legge nella sentenza, «non è la registrazione pedissequa e ossessiva delle azioni di tutto il personale sanitario, ma la documentazione pragmatica delle attività svolte sul campo e i risultati auspicabilmente ottenuti» attraverso l’adeguamento alle più moderne regole di igiene del tempo.
Nel caso esaminato, peraltro, l’Azienda sanitaria, pur avendo dimostrato «un risalente, costante e meritorio interessamento al problema delle c.d. infezioni correlate all’assistenza (Ica), e quindi di avere predisposto tutto quanto necessario per istruire il personale, dotarlo di quanto necessario e organizzare a tal fine la struttura», non ha allegato alcun documento né fornito alcuna altra prova dell’applicazione pratica dei protocolli al caso specifico.
Per tale ragione, la domanda risarcitoria formulata dagli eredi della vittima, per il ristoro dei danni da lei subiti prima del decesso, ha trovato accoglimento, con condanna della struttura alla loro liquidazione.
Non così invece per i “danni riflessi”, azionati in proprio dai parenti della vittima, a titolo di responsabilità extracontrattuale. Erano loro, in questo caso, a dover dimostrare – oltre al nesso di causa – l’esistenza di una qualche omissione o negligenza posta in essere dalla struttura sanitaria nell’adozione e attuazione delle misure di prevenzione volte a ridurre al minimo il rischio infettivo. Dimostrazione che non è avvenuta e che non avrebbe potuto essere integrata dal semplice fatto che l’ospedale non sia stato in grado di provare alcunché, allorquando si trattava di difendersi dalle diverse pretese svolte dagli attori iure hereditario (a titolo contrattuale). La domanda è stata dunque respinta. Non senza che il Tribunale abbia fornito, incidentalmente, le proprie indicazioni in ordine alle attività difensive che era lecito aspettarsi dagli attori per assolvere ai propri oneri istruttori. Tra queste, attivarsi per l’ammissione di mezzi di prova che potessero rivelare, anche solo presuntivamente, il mancato rispetto degli obblighi di prevenzione di cui si discute, se del caso chiedendo l’ordine di esibizione in base all’articolo 210 del Codice di procedura civile di documenti volti a “scoprire” cosa sia stato fatto in concreto, per esempio, a dimostrazione delle attività di sanificazione svolte in occasione del trattamento della paziente.