Il paziente che rifiuta il ricovero libera il medico solo se è informato
Articolo di: Avv. Maurizio Hazan
Pubblicazione: Il Sole 24 Ore
Data: 26 Agosto 2024
Il rifiuto del ricovero ospedaliero, da parte di un paziente poi deceduto, esclude, di regola, la responsabilità dei sanitari. Non sempre però. Occorre infatti anche indagare se il paziente abbia rifiutato il ricovero sulla base di una corretta informazione circa il proprio stato di salute e i correlati rischi.
Lo ha affermato la Cassazione che, con l’ordinanza 21362 del 30 luglio 2024, si è occupata del caso di una paziente alla quale, in pronto soccorso, non fu colpevolmente diagnostica un’ischemia celebrale, successivamente – ma ormai tardivamente – individuata presso un altro ospedale all’esito di una Tac.
Il concorso di colpa
Pur a fronte dell’errore commesso dai sanitari della struttura inizialmente interpellata, i giudici del merito avevano ritenuto che il rifiuto del ricovero in quella sede opposto dalla paziente fosse un fatto idoneo a configurare un concorso colposo della vittima. Questo perché, recita la motivazione della Corte d’appello, «in ambiente ospedaliero, il paziente – che può essere seguito da una equipe di medici – e? molto più tutelato per cui e? normale pensare che il danno procurato dall’errore terapeutico (…) avrebbe potuto essere attenuato».
Censurando la vaghezza di questo ragionamento, la Suprema Corte cassa la sentenza d’appello, nella parte in cui decurta della metà il risarcimento riconosciuto ai prossimi congiunti della paziente, attribuendo al rifiuto del ricovero un’incidenza causale sul decesso pari al 50 per cento.
Superando la valutazione con cui i giudici del merito hanno ritenuto di dover ascrivere un paritetico concorso di colpa alla danneggiata (articolo 1227 del Codice civile), la Cassazione osserva come la decisione di non farsi ricoverare non basti di per sé a escludere la responsabilità dei sanitari, dovendosi anzitutto verificare se il rifiuto sia stato reso sulla base di una corretta informazione fornita alla paziente.
Il consenso informato
Valgono, al riguardo, alcuni principi cardine del nostro ordinamento. In primo luogo quello previsto, in tema di consenso informato, dall’articolo 1, comma 3, della legge 219/2017, in base al quale «ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi».
Soltanto se correttamente informato il paziente potrà liberamente autodeterminarsi e decidere se assumere, o meno, i rischi del mancato ricovero; in tal caso (articolo 1, comma 6, legge 219/2017) «il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale».
Tornando alla vicenda esaminata dalla Cassazione, pare evidente che, proprio a fronte dell’errore di diagnosi inizialmente commesso, la paziente non fosse in grado di comprendere se il mancato ricovero potesse o meno esporla al rischio di ulteriori e gravi peggioramenti di salute. Ciò al netto della necessità di verificare se, e in che termini, un ricovero tempestivo avesse o meno consentito un diverso esito della patologia.
La Cassazione boccia dunque l’operato dei giudici del merito, a differenza di quanto aveva fatto in una vicenda analoga nel 2013 (sentenza 14530/2013): in quel caso aveva confermato la decisione di merito che, una volta appurato che alla paziente fu debitamente consigliato dal medico del pronto soccorso il ricovero, aveva accertato l’assoluta mancanza di nesso eziologico tra il comportamento del medico e il successivo evento mortale.
Da questa vicenda emerge comunque l’importanza della comunicazione in sanità: se è vero che «il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura» (articolo 1, comma 8, legge 219/2017), è ancor più vero che il tempo, da solo, non basta: quel che conta, forse anche di più, è il modo con cui si comunica. Modo che, quando ben gestito, corrobora quell’alleanza terapeutica che lega il medico al paziente e che spesso consente di superare – anche con la forza di una vicinanza umana prima che professionale – le eventuali criticità che un percorso sanitario può talvolta riservare.
SITUAZIONI DIVERSE
Mancata informazione
La Suprema corte (ordinanza 21362/2024) cassa con rinvio la decisione della Corte d’appello perché, nel valutare il peso del rifiuto del ricovero, non ha considerato né il difetto di informazione del reale quadro clinico della paziente, sia a quest’ultima sia a chi l’aveva accompagnata in pronto soccorso, né la non incidenza del ricovero rilevata dai consulenti tecnici d’ufficio
Medico non responsabile
La Cassazione (sentenza 14530/2013) ha invece ritenuto corretto escludere la responsabilità del sanitario per la morte della paziente, quando questa, in occasione del consiglio del ricovero, lo abbia consapevolmente rifiutato e non sia stato provato un difetto di informazione sui rischi del rifiuto.